Carlito’s Way
Quelli che toccano i fiori
Piccoli pensieri paralimpici
Citius, Altius, Fortius. La storia delle Olimpiadi è sempre quella, si racchiude tutto lì, o quasi.
Vale anche per la Paralimpiadi, a cui vanno aggiunte Visibilità, Accessibilità, Opportunità.
Sono appena terminate, siamo nel 2021 avanzato, e devo dire che a questo Carlito mancheranno più delle altre Olimpiadi, quelle “normali”, meravigliose pure quelle, beninteso.
Ma chi mi conosce sa che anni sostengo che, nel giro di poche edizioni, le Paralimpiadi avranno lo stesso peso mediatico, economico e sportivo delle Olimpiadi. Non credo proprio di sbagliarmi.
Nell’uno e nell’altro caso si guardano le medaglie e ci si commuove per le storie, ma qui le storie sono completamente diverse.
Siccome faccio sempre più fatica a sopportare la retorica (se non come antica disciplina di saper intrattenere un dialogo complesso), non ce la faccio a parlare delle Olimpiadi dei “normodotati” e dei “diversamente abili”, non riesco a misurare le parole per accreditarmi come “politacally correct” a tutti i costi, magari attrarrò la critica di qualche benpensante, ma mi interessa meno di zero.
Le Olimpiadi sono l’apoteosi dello Sport praticato da chi, pur facendosi male, subendo infortuni, cadendo e risorgendo, piangendo e impazzendo di gioia, parte da una costituzione e condizione fisica “a posto”, integra.
Le Paralimpiadi sono la grande occasione di riscatto resiliente per disabili, persone che sono nate con malformazioni dalla nascita, o mutilate in qualche parte del corpo per incidenti o disavventure di varia natura o con disabilità intellettive, insomma persone alle quali la vita ha inflitto ferite nel corpo, nella complessità dell’organismo. Tutta un’altra storia, che non toglie o aggiunge nulla a nessuno, ma tutta un’altra storia.
La dico più brutta: persone che guardi ammirato o stupefatto alle Paralimpiadi e che magari se le vedi per strada, qualcuno si gira dall’altra parte o cambia marciapiede, e non mi dite che non è vero.
Le Paralimpiadi sono la storia di persone che tramite lo Sport hanno deciso di cambiare per sempre la loro storia. Io la vedo così. Mica facile, mica da tutti.
Carlito le ha seguite con più passione e meraviglia delle pur sempre meravigliose Olimpiadi, che non sono mai solo la più grande manifestazione sportiva, ma un metronomo generazionale che ci regala storie che si portano con se per sempre: “io c’ero”, “io l’ho visto”.
Questa Paralimpiade è qualcosa di più, rimane sempre un metronomo per le nostre esistenze, un processo identificatorio unico come le Olimpiadi (chi non vorrebbe saltare una volta nella vita pazzo di gioia come Tamberi, ma dopo che ha saltato l’asta, sulla pista), ma non più solo generazionale, bensì epocale.
Credo proprio che siano state una svolta definitiva nel mondo dello Sport, le Paralimpiadi di Tokio 2020 ai tempi del mostro che ci insegue e che le ha fatte diventare 2021.
Per questo non mi rimarrà tanto il medagliere, ma alcune immagini e parole che rappresentano l’essenza di tutte le storie e le imprese meravigliose e incredibili che abbiamo visto e vissuto.
Mi rimarrà per sempre l’immagine degli atleti e atlete colpiti da cecità o ipovedenti che, sul podio, toccavano il mazzo di fiori con il quale li omaggiava l’autorità di turno: chissà quali odori e sensazioni tattili hanno provato in quei momenti, chissà cos’hanno trovato e vissuto in quel mazzo di fiori, che noi possiamo vedere, ma loro possono sentire in profondità.
Per questo non dimenticherò mai il pianto da quegli occhi che non vedono di Keiichi Kimura sul podio più alto dei 100 mt. rana categoria SB11 (le categorie sono talmente tante che sono ai più difficilmente decodificabili), e il modo il cui accarezzava il suo mazzo di fiori, mi sarebbe piaciuto sentire le sue lacrime innaffiare quei fiori, perché sicuramente è stato così.
Per questo non potrò togliermi dalla mente le immagini di Omara Durand che nei 100 metri T12 per ipovedenti correva in sincronia perfetta con il suo accompagnatore, quattro gambe che erano due, uno spettacolo di armonia e di perfezione, quasi una storia d’amore sportivo.
E nemmeno potrò mai dimenticare le parole di un nuotatore italiano, del quale non sono riuscito a recuperare il nome perché sono meno famosi degli altri (ma lo recupererò, e forse lo vorrò conoscere, se vorrà), che alla fine della sua esperienza paralimpica in intervista ha detto queste parole: “per noi la resilienza è come il corpo reagisce agli urti della vita”.
Grazie, a me che ci lavoro da tanti anni, hai insegnato una nuova cosa, hai detto tutto in una frase, alla faccia di tutti coloro che non sapendone nulla lo vogliono considerare un concetto statico e non evolutivo.
Non c’è altro da aggiungere, se non una sola piccola – grande cosa, ora che si è appena conclusa la cerimonia di chiusura ed è stato dato l’appuntamento a Parigi nel 2024.
Immaginate come sarebbe stato, se non fosse stata per la mancanza di visione (dopo quello che ho scritto assume un sapore tragicomico) di pochi che se lo potevano permettere, se quelle Paralimpiadi avessero potuto essere celebrate nella bellezza di una Roma ferita, forse curata dalla bellezza delle Olimpiadi dei feriti dalla vita. Forse un giorno torneranno, ma quale grande occasione perduta.
La cecità non è solo negli occhi, più spesso fa più male quella del cuore e della mente.
Nota: l’immagine di Keiichi Kimura non è di Tokio 2020-2021 (non è ancora disponibile sul web e non sono riuscito a scattare durante la premiazione), bensì di Rio 2016, ma poco importa, il gesto non cambia significato; appena troverò quella di Tokio la cambierò.