Carlito’s Way
Ma non vi fa piacere quando qualcuno vi chiede qualcosa, che ne so, un progetto o un semplice parere o consiglio, e vi risponde con prontezza?
E non vi fa incazzare un po’, o un bel po’, chi vi chiede le stesse cose e poi non vi risponde, magari senza nemmeno dire grazie?
Guardate che non è una cosa da poco, forse potrà sembrare marginale rispetto ad altre cose ritenute più importanti, ma in realtà è un aspetto importantissimo nella costruzione di relazioni solide ed affidabili. Diamoci risposte rapide, se chiediamo rapidità di risposta, caspita.
Se mi chiedi un progetto “per domani”, perché non mi rispondi dopodomani? Se ti chiedo un progetto per domani, perché mi viene da rispondere subito, oppure dirti in quanto tempo lo farò?
Non ti piace il mio progetto, la mia proposta? Dimmelo!
Non mi piace la tua proposta o progetto? Te lo dico!
Hai bisogno di tempo, ho bisogno di tempo, diciamocelo! Ma non fartelo chiedere due volte.
Dove sta il problema?
Se non lo facciamo, entriamo nel mondo opaco delle “disconferme”, una delle cose che più infastidisce ciascuno di noi. Anzi, fa proprio incazzare.
Ma chi se per non rispondere?
Ma chi sono per non rispondere?
Vuoi essere multitasking e non ne se capace, o non vuoi?
Non hai tempo da dedicare a chi chiedi di dedicarti tempo? Non lo fare, la tua reputazione ne risentirà molto.
E non è solo una questione di mail o di risposte verbali, ma anche di postura organizzativa, che forse conta anche di più, never forget.
Essendo saltate molte delle regole di “economia sociale” che sostengono un sistema economico, stanno cambiando anche le “regole” del feedback: non conta molto, conta solo “mi serve”.
Fidati, prima o poi non avrai feedback.
Feedbackless
La presunzione della comunicazione senza relazione
Tutti conosciamo il significato del feedback, inteso come un segnale attraverso il quale il destinatario riceve informazioni sulle azioni eseguite o in corso, e sul loro risultato. Eccome se lo conosciamo, in entrata e in uscita.
In questo senso, nella pratica il feedback contribuisce a determinare quelle operazioni di “calibratura” tra diversi attori che sono necessarie per il buon funzionamento di ogni organizzazione e dei sistemi di management che al loro interno interagiscono.
Senza tempestive azioni di calibratura tra attori coinvolti in azioni che li vedono contemporaneamente protagonisti, naturalmente con differenti livelli di responsabilità, i processi d’integrazione organizzativa non funzionano a dovere, e il sistema perde in precisione, capacità è velocità di adattamento, efficienza ed efficacia operativa. I sistemi manageriali nei quali il feedback funziona male sono caratterizzati da perenni “rincorse” e frustranti malintesi, intempestive correzioni di rotta e “rumors” di ogni tipo.
Di fatto, il management che non sa o non vuole gestire bene il feedback agisce nella presunzione di gestire le informazioni, ignorando che un cattivo feedback genera pessima comunicazione, sia nel senso del passaggio di informazioni, che nel senso del clima relazionale.
Infatti, visto in questa ultima prospettiva, il feedback può influenzare notevolmente il comportamento umano; come simpaticamente dice J. T. Hallinan[1], “è il motivo per cui le slot machine pagano immediatamente le vincite. I casinò vogliono che continuiate a fare quello che state facendo, cioè giocare”.
Al di là della sua ovvia rilevanza per i processi operativi, il feedback ha dunque un grande potere nello sviluppo delle relazioni tra persone, perché le modella nella pratica quotidiana, calibrando competenze, sistemi di aspettative e processi decisionali.
Collocato all’interno di una dinamica gerarchica, se correttamente utilizzato, ha poi l’insostituibile funzione di “rinforzare” i collaboratori, facendogli percepire la rilevanza del loro operato, vale a dire la loro influenza nel sistema organizzativo; chi riceve feedback tempestivi dall’alto non soltanto si sente rassicurato, ma relazionalmente rilevante, perché “dentro” le cose e le situazioni.
In altre parole, il feedback ha un enorme impatto emotivo e contribuisce non soltanto a far circolare le informazioni (questo è il suo utilizzo più “primitivo”), ma a costruire le relazioni, dando loro valore.
Eppure, molti managers non comprendono tale semplice e fondamentale questione, anche se quasi nessuno è portato ad ammetterlo, lamentandosi spesso più del feedback altrui, che del proprio.
Spesso il feedback viene “richiesto”, ma non “servito”, cioè si pretende quando se ne ha bisogno, ma non viene fornito altrettanto tempestivamente quando ne ha bisogno qualcun altro, e questo non fa altro che produrre “disconferme” che generano disfunzioni e, spesso, rancori non dichiarati.
Quando “il capo” pretende il feedback immediato, ma non lo dà, le cose non vanno bene, il sistema di management diventa vischioso e le relazioni perdono valore. No?
Vero è che, più si sale verso l’alto nel sistema delle responsabilità organizzative più è necessario che ci siano filtri verso il top management, ma questo non è il punto, perché è lo stile di chi sta in alto che influenza in modo determinante i comportamenti organizzativi diffusi.
Come dice ancora Halliman[2], “nelle situazioni dove il livello di presunzione è alto, il livello del feedback è spesso basso, per quantità o qualità, oppure per entrambe”.
Quando si parla di presunzione non si parla semplicemente di un atteggiamento caratteriale, ma della convinzione acquisita che i propri bisogni di comunicazione e relazione prevalgano su quelli degli altri in relazione alla posizione gerarchica o alla posizione di potere occupata nell’organizzazione.
In questa stagione di grande concitazione nelle organizzazioni, dove il risultato a breve prevale spesso su ogni altra cosa, troppo spesso chi acquisisce potere si sente autorizzato/a a non dare il feedback, ma a pretenderlo, e questo accade proprio in un’era in cui non è mai stato così facile l’accesso alle informazioni.
Ma non alle relazioni.
Così nelle organizzazioni si ha l’impressione che ci sia molta informazione, a volte troppa e ridondante, ma poco feedback e quindi poca comunicazione.
Così dobbiamo sovente accontentarci di sapere che “la nostra email è stata letta”, questo ci basta come feedback, ma non di sapere che effetto ha generato, nell’attesa che l’effetto semplicemente accada.
Annoveriamo queste situazioni nella fenomenologia dello “stress da potere”, che interessa coloro che, occupando posizioni di vertice nelle organizzazioni, devono fronteggiare tali livelli di complessità e pressione da dimenticare che una buona qualità delle relazioni -. così rilevante per il business – passa anche attraverso una eccellente gestione del feedback, che crea risonanza, a partire proprio dagli atteggiamenti in tal senso espressi dal vertice.
Alcuni, addirittura, sembra traggano gratificazione del negare il feedback, pretendendolo, facendone un uso in termini di puro potere e facendo leva su uno degli assiomi elementari della comunicazione, cioè che non è possibile non comunicare, e perciò che l’assenza di feedback comunica eccome: distanza e dissonanza proprio quando c’è bisogno di community.
Certo che la gestione del feedback è una manifestazione di come si gestisce il proprio potere, ma conta di più il potere del feedback.
insomma, se non rispondi a chi hai chiesto di risponderti, sei uno sfigato o una sfigata.
[1] Joseph T. Hallinan, “Why we make mistakes”, Random House Ins, New York, 2009
[2] op. cit. pag 209.