Carlito’s Way

Il Punto Cieco
Javer Cercas

 

Tutto nasce dal fisico Edme Mariotte, che nel Seicento ipotizzò che i nostri occhi abbiamo un punto cieco, “un luogo sfuggente, laterale, e non facilmente ipotizzabile, situato nella retina, che è privo di recettori per la luce e attraverso il quale, perciò, non si vede nulla; se non notiamo l’esistenza di questo minuscolo deficit visivo, di questa zona di oscurità, è per due motivi: in primo luogo perché vediamo con due occhi, e i loro punti ciechi non coincidono, cosicchè un occhio vede ciò che non vede l’altro e viceversa; e in secondo luogo perché il sistema visivo riempie il vuoto del punto cieco come informazione disponibile: perché il cervello supplisce a ciò che l’occhio non vede”.
L’esistenza del punto cieco è stata poi dimostrata empiricamente, per questo quando sorpassiamo non ci possiamo fidare del tutto dello specchietto retrovisore, e per questo la tecnologia propone diverse telecamere, per ovviare al nostro punto cieco. E forse non bastano nemmeno quelle, serve ancora il nostro intuito, lo sappiamo che non possiamo vedere tutto, che qualcosa rimane fuori dal nostro campo visivo, anche se il cervello ci aiuta ad immaginare cosa.
Su questa idea Javer Cercas, splendido studioso e romanziere, ha scritto un saggio di natura letteraria, a parture dall’analisi del Don Chisciotte fino ad altre opere letterarie, sostenendo che la grandezza di quelle stesse opere sta nei loro “punti ciechi”, nelle ambiguità che le contraddistinguono, nella possibilità data al lettore di cercare e trovare diverse verità: il loro fascino sta nella loro ambiguità interpretativa, una forma assoluta di libertà.
Gli occhi di Carlito, da sempre imperfetti, hanno dovuto fare ricorso alla complessità meravigliosa ed a sua volta imperfetta del cervello per interpretare gli innumerevoli punti ciechi che lo attendevano, scongiurando che la visione fosse la più ampia possibile, nella consapevolezza che ciò non è comunque possibile.
L’idea del “punto cieco” mi affascina perché rafforza il senso di relatività che da sempre mi accompagna: vedo molte cose, ma non tutte posso vederle bene, e alcune rimangono sono solo attimi d’intuizione. Eppure forse è proprio lì che il cervello funziona meglio, quando toglie un attimo d’imperfezione all’illusione di vedere tutto nella sua interezza.
E la stessa idea del “punto cieco”, naturalmente, non riguarda solamente la letteratura ma, voglio pensare, l’intera nostra vita: l’amore è pieno di “punti ciechi”, l’amicalità altrettanto, per non parlare della vita professionale, dell’appartenenza organizzativa, delle dinamiche di potere, e così via. Quante cose abbiamo “visto” solamente intuendole, ne siamo stati vittime e carnefici. Tutti abbiamo mentito affidandoci al “punto cieco”, e tutti abbiamo subito i “punti ciechi” altrui. Chi lo nega, semplicemente mente, prima di tutto a a se stesso e a se stessa.
E per questo non posso non pensare a “Cecità”, il romanzo dell’immenso Josè Saramago, non citato da Cercas, ma del quale prossimamente scriverò.
Ma soprattutto scriverò dei punti ciechi nella vita organizzativa, di coloro che pensano di vedere tutto e non si accorgono di quello che accade nel “backstage” che persano di dominare, e di quelli che accettano di essere ciechi per sapendo di non esserlo, ma si sentono costretti a chiudere gli occhi per convenienza, timore o piaggeria, o per qualche altro umanissimo motivo, soffrendo di voluta o complice cecità. D’altronde, il “punto cieco” è un dato di fatto, una verità scientifica, e dobbiamo accettarlo, e a volte nasconderci dietro la sua patina di oscurità.
Se l’essenziale è invisibile agli occhi almeno usiamoli tutti e due, per quello che possono farci vedere, per il resto usiamo il cervello, per quanto imperfetto.
Intanto leggiamo questo memorabile saggio di Javier Cercas.