Carlito’s Way
The Great Resignation
Pensavo fosse una casa, invece è una roulotte
Sul tema della crescita esponenziale dell’abbandono volontario delle posizioni lavorative ci sono già diversi autorevoli ricerche, pubblicazioni, interessanti convegni e attori prestigiosi che se ne occupano, quindi se vogliamo seguire l’onda basta fare qualche ricerca sul web e trovare interessanti analisi e ipotesi di lavoro.
Carilto sente di dover dire qualcosa in merito, senza voler insegnare niente a nessuno, ma chi mi segue sa che a me piace dire qualcosa sulle cose che conosco e tacere su quelle che non conosco; e di questa cosa qualcosa conosco.
E’ sempre facile parlare con il senno di poi che come sappiamo sfiora sempre, o sovente oltrepassa, i 10 decimi, nutrendo le visioni esperte spesso senza aumentare il visus: George Orwell diceva che “per vedere cosa c’è sotto il proprio naso occorre un grande sforzo”.
Una dozzina di anni fa, sotto i miei occhi, sono passate le sensazioni, le emozioni, e pensieri e le figure umane di centinaia e centinaia di persone (circa millequattrocento) che, dopo la crisi del 2008, avevano perso il lavoro, spesso in maniera traumatica: ci ho scritto anche una parte di un libro[1] che ha avuto un buon successo, anche se il committente ci chiese più di lavorare sul “cosa devi fare”, piuttosto che sul “cosa sentire”. D’altro canto, se ti trovi in quelle condizioni qualcosa devi fare. E va bene.
Ma Carlito, al di là dei suggerimenti pratici che poteva dare come “coach”, fu molto colpito dal “sentire”, prodromico di quello che sta accadendo ora, del fenomeno della “Great Resignation”, appunto.
Se non ricordo male, grazie a quel programma di lavoro più del 80% ritrovò un nuovo lavoro (magari non nella spessa posizione, ma un lavoro è un lavoro), ma fui colpito, molto colpito, che un buon 90% dichiarava (che in maniera assolutamente esplicita, chi in modo più velato), di “non voler più tornare a lavorare nelle stesse condizioni e con le stesse modalità di prima”. Lavoro sì, devo lavorare, ma non più così.
Non più così in che senso? Con livelli di pressione intollerabili, procedure asfissianti e spesso cervellotiche, capi che proclamavano valori dichiarati mai vissuti nella realtà, “quarter slaves”, capi che pretendevano leadership senza averne mai avuto un briciolo, leader autoproclamati, tempi di lavoro sovrastanti quelli di vita senza possibilità di negoziazione, immediatezza di risposta e reperibilità continua, cervellotici calcoli per arrivare alla pensione con ancora anni ed anni di lavoro davanti, e via così, sono cose che conoscete tutti.
E molti ci credevano che le cose dovessero andare ancora avanti così per forza, non solo per sé (un manager si sa, deve essere così), ma anche per tutti gli altri, che magari guadagnavano 10-20-30 volte e più di meno, a seconda dei casi.
Ma è anche vero che tutti sappiamo quanto sia costosa l’appartenenza ad un’organizzazione, e come quelle dinamiche stavano minando alla base il senso di appartenenza alle organizzazioni, uno dei pilastri di sempre del management per diverse generazioni[2]. Farne parte ti assorbe la vita, una gran parte di essa, se non te sei preparato (o ti viene concesso) a diversificare i tuoi interessi: sono anni che provo a dirlo e a porre questo “bullet point”, non puoi vivere per la tua organizzazione, ma con la tua organizzazione.
Alcuni devo dire che mi hanno ascoltato, altri hanno fatto spallucce. tutto deve tornare come prima in termini di appartenenza, per poi sgolarsi nel paladinaggio della “new normality”. Vabbè, ci sta, sappiamo come vanno le cose.
Poi arriva la pandemia con il suo bel smart working, l’entusiasmo che le accoglie, le call online e le call per fare le call online e tutto quello che conosciamo, e si scopre che milioni e milioni di persone in tutto il mondo, soprattutto nel range di età 30-45, si staccano dal lavoro volontariamente, preferiscono andarsene in molti casi anche senza avere un altro lavoro, insomma si rompono le palle e se ne vanno. Ti mollano senza pensarci troppo, qualcosa ritroveranno, statene certi.
Chi se ne accorge per primi? Gli americani naturalmente, e giù studi, analisi e ricerche sui trend generazionali. Poi arriva anche da noi, con l’imprenditore che non solo non trova più il “ragazzo o la ragazza” che “ha voglia di fare” (ah ai nostri tempi, la gavetta, la fatica, i giovani di oggi, ecc..), ma vede anche che se ne vanno così, da un giorno all’altro, apparentemente senza motivo.
Perché? Perché non gli avete dato una casa in cui stare, ma una roulotte nella quale parcheggiarsi, e allora loro si muovono, sennò a che serve una roulotte?.
Mc Kinsey dice che una delle motivazioni principali della “Great Resignation” non sono i soldi, ma il fatto che le persone spesso si sentono non apprezzate, la loro percezione di appartenenza si basa sul sentimento di essere all’interno di una pura e semplice transazione, non percepiscono un senso di scopo.
E lo vogliono, eccome se lo vogliono, sennò se ne vanno.
Ma poi altri dicono che, insomma, non è mica vero che i soldi non contano (rapporto Goldman Sachs, mica Carlito), un po’ ancora sì: per cui c’è anche la disparita di trattamento tra e ragioni della Great Resignation: quando capisci che ci metti trenta ore del tuo tempo a guadagnare quello che il tuo capo (pardon, leader) guadagna in un minuto, prima o poi ti girano le suddette palle, a meno che non hai un grande senso dello scopo.
E quindi cosa facciamo?
Ma certo (!), il benessere del dipendente come nuovo (?) assunto, il nuovo ruolo HR che ha come compito di convincere le persone a non andare via[3] (siamo nel post-recruitment, diventi scemo a cercare e coltivare talenti e poi non riesci a tenerteli), e così via.
La verità è che dopo anni ed anni di privilegi per pochi e shit job condition per altri, le generazioni di mezzo si sono stufate di livelli eccessivi di stress e di rischi di burnout in condizioni di appartenenza giudicate non più significative, di valori sbandierati e non agiti e di prospettive incerte.
Quindi esco dalla casa, prendo la mia roulotte e viaggio. Go West Employment.
E qui arriva il nuovo tentativo di colpo di genio per recuperare la situazione in logica di “new normality”: il Leader Gentile pieno di soft skills come se fossero Xanax.
Qui una serie di soft skills [4]che il “leader gentile” dovrebbe coltivare” (ce ne sono un tot sul web, ve ne propongo solo una lista, ma si assomigliano tutte):
- Ascolto attivo. Un buon leader deve avere a cuore le opinioni di tutti coloro che compongono l’azienda.
- Motivational speaking. È importante che sappia motivare i collaboratori ispirando positività ma soprattutto fiducia.
- Empatia. È la chiave da possedere per comprendere le esigenze dell’azienda e dei colleghi.
- Interpersonal skill. La gentilezza fondamentale per avere successo nonché alimentare relazioni efficaci tra le mura dell’ufficio.
- Gestione dei conflitti. Saper gestire e valutare le cause dei conflitti favorisce uno scambio di opinioni più efficace
- Leadership collettiva. Tra i compiti del buon leader c’è anche quello di far sentire importanti i propri collaboratori, rendendoli un punto di riferimento per attività aziendali di rilievo: questo si traduce nel comprendere quando è il momento giusto di passare la parola anche agli altri dipendenti.
- Comunicazione efficace. Deve essere in grado di comunicare in maniera efficace e chiara con i suoi collaboratori e clienti.
- Time management. È la capacità di saper gestire e organizzare il lavoro rispettando le scadenze previste.
- Feedback. I giudizi altrui sono di fondamentale importanza per aiutare le persone che ci circondano e migliorare sia dal punto di vista professionale che personale.
- Flessibilità. Un leader deve sapere adattarsi alle diverse situazioni lavorative e trovare soluzioni ad eventuali problemi di percorso.
Ok, questo sarebbe o dovrebbe essere il leader gentile, bisogna aggiungere altro, se non il fatto che se nasci stronzo fai fatica a diventare gentile, anche se puoi studiarci sopra rivolgendoti ai professori universitari che ti faranno un bel master a pagamento? Ma quanti anni sono che diciamo queste cose, che cerchiamo di farle arrivare con un engagement potente? E questa sarebbe una novità per contrastare la Great Resignation?
Se questa è l’era del “tenersi le persone” dopo che abbiamo capito che “coltivare talenti” non basta, ricostruite la casa con il suo “home feeling” e genius loci (non c’è il superbonus), oppure allargate i parcheggi per le roulottes.
[1] “Out of office: storie di manager che si sono reinventati il futuro” di M. Del Monte, C. Romanelli, G.P. Scilio, ed. Franco Angeli, Milano 2013.
[2] Leggi in questo blog: “Senso di Appartenenza: la grande trasformazione”.
[3] Mc Entire Produce, azienda alimentare di Columbia nel South Carolina, 170 USD di fatturato è la prima azienda che ha istituito una figura HR con il compito di “trattenere i dipendenti”
[4] Di Jader Liberatore, Contributor, Forbes Lifestyle 09/08/21: Jader non te le prendere ti prego, tu fai solo il tuo lavoro, non è una critica a te.